Giuseppe Gioachino Belli, Roma, 7 settembre 1791 – Roma, 21 dicembre 1863
Con i suoi duemiladuecentosettantanove sonetti, Giuseppe Gioachino Belli riassume nel dialetto romanesco la vita borgatara e attraverso la verve di colorite pasquinate offre un quadro ironico, aspro e sadico, talvolta denigratorio della corruzione sotto il pontificato di Gregorio XVI, il Balneis Etruriae delle Profezie di Nostradamus. Come Dante che nei canti ha lasciato tracce inconfondibili di esperienze venatorie documentate dalle soste nelle corti signorili, così Belli, scisso nell’interiorità, si interroga sulla sua effettiva estraneità e disaffezione al mondo dei cacciatori. Questa controversia emerge presa di posizione netta nella complessità degli scritti e si impegna a vivere con costanza il soffrire che rigurgita dai versi. Se il re messo a nudo nel sonetto Li soprani der monno vecchio con “Io so’ io e voi nun ziete un cazzo!”, poi urlato da Sordi ne Il Marchese del Grillo mira…
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